Andare a vedere Woodstock, il film, ai tempi - noi poveri ragazzi della borghesia milanese in odore di rivoluzione - era come andare a Lourdes.
Ci si avvicinava al cinema che lo proiettava (chissà quante volte l'ho visto...) come si approcciasse una reliquia, come si entrasse in un santuario.
La cosa 'ridicola' era che anche molti degli spettatori si vestivano ad hoc, come se il look di appartenenza fosse obbligatorio. Una cosa strana questa. Io che sono da sempre appassionato di montagna e di alpinismo, quando ero giovane frequentavo il mondo della montagna, assistevo spesso a conferenze e a proiezioni. Molti degli spettatori si presentavano, in centro a Milano e magari a giugno con un caldo porco, con scarponi ai piedi e piumino, come se l'abito facesse il monaco... E io me la ridevo sotto i baffi, che ancora al tempo non avevo.
Comunque torniamo alla bella musica.
La proiezione era un vero happening, con gente che ballava (poca) e che cantava (tanta) e che tamburellava (tutti), sognando insieme di essere là, di essere on the road, di riuscire a liberarsi del fardello della famiglia, della scuola, degli spaghetti e del mandolino.
Era bellissimo, quasi alla pari del senso di frustrazione assoluto all'uscita dal cinema, che ci faceva ripiombare repentinamente nella propria sordida realtà, nella propria quotidianità e nelle propria vita piccola e tutta ancora da scoprire.
La musica era bellissima, quasi tutta, e ti catturava, ti travolgeva, proprio perché veniva assaporata con quella miscela di protesta, di viaggio, di fuga, di belle ragazze e di non so che altro.
Ricordo - ancora oggi quando lo rivedo - che oltre alla musica mi attraevano molto le interviste, le chiacchiere con i ragazzi presenti, lontani mille miglia sia geograficamente sia culturalmente ma proprio per questo idoli incontrastati di una 'protesta' (o di una semplice fuga) più o meno condivisibili. Ricordo in particolare una demente con aria trasognata e con fascia sulla fronte che diceva di aver perso la sorella e di non sapere come tornare, con dei dentoni che avrebbero fatto invidia a un T-r
ex.
Poi ognuno aveva i propri gusti musicali.
C'era chi amava Crosby, Stills & Nash e le loro atmosfere country e chi invece voleva il rock duro degli Who con chitarra sfasciata di prammatica in conclusione; chi si lasciava trasportare dalle meravigliose atmosfere della west coast dei Jefferson Airplane (Grace Slick era bellissima!) e chi si gettava tra le lunghe braccia di Jimi Hendrix (bellissimo, vestito di bianco con lunghe frange in stile Apache) e il suo inno americano tra le bombe suonato quasi nel deserto visto che era arrivato troppo tardi; chi si agitava per il lunghissimo e virtuosissimo assolo di Alvin Lee (da poco volato via) e chi invece sognava tra le arie dolci di Joan Baez (due palle...) e le canzoni 'di protesta' contro la guerra in Vietnam.
Insomma un grande appuntamento in cui quasi tutti i più grandi dell'epoca hanno potuto esprimersi in una cornice straordinaria di oltre mezzo milione di persone accampate, in adorazione, per tre giorni di musica e amore. Un appuntamento - al tempo non lo sapevano forse - che sarebbe entrato nella storia della musica e del costume del novecento.
Il film si apriva con uno strano individuo, di colore, vestito con una palandrana terrificante arancione che, quando veniva inquadrato da vicino, denotava qualche problema dentario.
Richie Havens si era presentato sul palco solo, con la sua chitarra, ed era partito con la sua 'Freedom' che sarebbe diventato, dopo quel giorno, uno dei tanti inni del momento. Una performance in crescendo, sempre più urlata, fino a un finale convulso e stonato.
Chi non l'ha suonata dopo quel concerto? Chi non l'ha cantata inneggiando all'uguaglianza e alla libertà del popolo nero?
Oggi ci dicono che se ne è andato, lasciandoci un po' più soli.
Ma sicuramente se ne è andato a cantare e a suonare in un luogo meraviglioso, libero come la sua canzone.
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