venerdì 20 maggio 2011

Eteree citofonate

Sono le nove di sera passate.
Il buio tarda a diventare tale, grazie all'arrivo della bella stagione e degli stravolgimenti umani dell'orario.
I figli ormai lanciano le loro ultime proteste prima di addormentarsi.
Il resto della famiglia si organizza come crede: libri, computer, tv...
Un suono squarcia il silenzio serale. Invadente, bitonale, squassante, odioso...
- E chi sarà mai a quest'ora al citofono? chiedo a mia moglie immersa nel suo monitor di colore acciaio.
Manco mi risponde tanto è impegnata, alza solo un occhio che significa alzati e vai a sentire chi è che io c'ho da fare.
- Pronto? chiedo sempre più incuriosito. - Chi è?
Dall'altra parte un silenzio tombale, solo rumori di fondo.
- Pronto? Sto per riattaccare quando la voce che mi rincorre da qualche giorno si fa sentire ancora una volta.
- Ehi, miscredente, ti disturbo? mi sussurra nella cornetta del citofono.
E io penso. O è un ragazzino che fa gli scherzi al citofono di adolescenziale memoria, oppure...oppure è lui.
Mi torna alla mente quella canzone di Battisti che si intitolava 'Ancora tu', e mi viene voglia di canticchiargliela al citofono, ma decido che forse è meglio di no.
- Allora che fai, scendi? O salgo io? mi scuote improvvisamente. - E lascia stare Battisti, che tanto non ti è mai piaciuto...
Avere a che fare con qualcosa di superiore, con qualcuno che paventa strani super-poteri mi irrita. Non sai mai come muoverti, non sai mai se pensare o fare la faccia da pesce bollito, non sai mai se muoverti o stare fermo. Insomma la tattica, in questi casi non esiste proprio visto che te la sgamano in diretta.
- Scendo io, per carità. Sennò mi svegli i bambini..., rispondo risoluto e alquanto compiaciuto della mia fermezza.
Informata l'altra metà della famiglia della mia momentanea assenza, scendo le scale, e di fronte alla porta a vetri che dà sul giardino condominiale me lo ritrovo davanti.
Oggi ha un che di morbido, pantaloni tipo lino, e una felpa con cappuccio che copre parzialmente il viso. Sempre questa aria 'illuminata', sempre questa sensazione di pace che lo pervade e che abbraccia chi gli sta intorno.
- Se vuoi parlarmi di elezioni, di politica, di comunicazione, di media, sappi che ne ho piene le tasche, non ne ho voglia, sono pieno, pienoooo!
Lui mi guarda, senza sorridere questa volta.
Mi prende delicatamente il braccio, mi trascina dietro all'edificio dove il cielo si apre. Un cielo ancora striato d'azzurro, con una luce intensa che arriva da non si sa dove.
- Viene, vieni a guardare, mi dice.
Io lo seguo, e man mano che camminiamo la luce si fa sempre più forte, sempre più violenta, sempre più invadente. Viene da dietro la casa di fianco.
Ancora qualche passo e tutto si svela.



- La vedi la luna?
- La vedi?, rinforza il mio compagno di visioni.

Una luna piena, gigantesca, su cielo blu ormai quasi nero, irradia come fosse un sole, una luce che traccia contorni, svela angoli, rivela strade, cose e persone.
Rimango incantato, muto, immobile. A 53 anni di lune piene, in città come su palcoscenici più intriganti come monti e mare, di qua e di là dall'equatore, d'inverno e d'estate, ne ho viste.
Ma questa era diversa, esageratamente grande e vicina.
- È bellissima, riesco solo a dire. Una vera osservazione poetica, dotta, ricercata...
- Vero vero, mi dice lui. - Una delle gioie massime per gli occhi. E la sua luce riesce a rendere meraviglioso anche le cose più orribili, i pensieri più orrendi, le menti più vuote.
Io mi giro e so di interrogarlo con il mio sguardo.
- Perché ti dico questo? È questo quello che vuoi sapere?
Annuisco in modo impercettibile, continuando a chiedere con i miei occhi.
- Te lo dico perché tutta questa formidabile bellezza, tutta questa grazia, tutta questa pace, dovrebbero farti capire che devi sapere apprezzare quello che hai, che gli affetti che hai sono importanti, che la tua vita è preziosa. Non ti dico che ti devi accontentare. Non ti dico che ti devi rassegnare.
Prende un respiro per concludere.
- Ti dico solo che devi saper quello che hai ed esserne felice.
Mi guarda. Io lo fisso. Immobili, in mezzo al giardino.
E come il suo solito, come in un copione già scritto, sorride, si gira e se ne va.
Risalgo le scale.
E dopo i primi scalini mi sento urlare: - Ma questo chi lo ha chiamato?

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