venerdì 3 febbraio 2017

La terza via tra cedere e tenere duro

Non so cosa fare.

L'antefatto.
Andrea si è iscritto a pallavolo, in una società abbastanza rinomata. Con l'intento di imparare, perché gli piace molto questo sport.
La società ha numerose squadre, di diverse età, maschili e femminili, campionati di diversi livelli, in giro per la provincia.
Competizione vera, e competitività, sia tra i ragazzi sia spronata dagli allenatori.
Andrea non è nato 'sportivo'. Ha un fisco asciutto, ma molto asciutto, cioè è magro in croce.
Non è uno spericolato, non è uno che si butta, da tutti i punti di vista. Ma gli piace molto.
Solo che è molto indietro nella preparazione, rispetto ai suoi compagni.
Risultato?
Non è bravo, è evidente, non gioca mai, non lo coinvolgono mai e...

Il fatto
Ieri sera,  partita amichevole con le ragazze di pari età, di puro allenamento, vado a prenderlo. Erano le 20,30, acqua a catinelle, buio pesto, in mezzo alla tundra ai margine della società civile, dopo un giorno di lavoro intenso.
Sale in macchina, taciturno, visibilmente seccato.
- Allora, cosa c'hai, gli domando con poco tatto e visibilmente preoccupato.
Vedere mio figlio che ha qualche problema per me è come se mi condannaste all'ergastolo nelle prigioni thailandese. Entro in stato di agitazione massima, soffro fisicamente, divento aggressivo.
E lui scoppia in lacrime, come mai l'avevo visto, neanche quando era un piccolissimo essere appena arrivato su questo porco mondo e reclamava il latte dalla sua genitrice.
Non accendo l'auto. Vado dietro con lui, voglio capire.
- Non mi fanno mai giocare, neanche in queste partite in cui il risultato non conta. Come faccio a imparare se non gioco mai. E giù lacrime, disperato.

La faccio breve.
Lui non sta bene in quel posto. Si aspetta di imparare, si aspetta un educatore/insegnante invece di un allenatore come di fatto è.
- Questa è una squadra. Qui tirano su i ragazzi più bravi, fanno tornei, coltivano i talenti nella pallavolo. Se ti spetti che il tuo allenatore faccia da insegnate è meglio che te lo scordi, gli sussurro deciso. Non voglio dargli false aspettative, questa è la realtà.
- Forse abbiamo fatto la scelta sbagliata. Qui o dimostri che stai imparando, che vuoi crescere, oppure sarai sempre ai margini. Gioca chi è più bravo, come tra i professionisti. Non ti aspettare trattamenti diversi, concludo.
E lui sempre più disperato.
Cerca di ribattere, ma le mie parole un po' dure, ne sono certo, lo fanno riflettere e vedere la realtà da un punto di vista diverso.
A casa si ricomincia la discussione. E io butto lì:
- Se vuoi smetti di andare, non ci vai più. Inoltre non è che stai legando con i compagni che infatti, loro giocando, fanno gruppo a sé e tu nei sei fuori. Ma lo devi decidere tu. Qualsiasi decisione per me va bene.
Lui ci pensa un po' e decide che vuole mollare.
Io assecondo la sua decisione e nei prossimi giorni comunicheremo a quei bifolchi che non andrà più.

E allora?
E allora ho passato gran parte della notte a domandarmi se questa è una sconfitta, se abbandonare è giusto e invece sarebbe meglio non mollare.
Ho passato ore a pensare se sto avvallando un pensiero 'debole' oppure sto giustamente facilitando una volontà di mio figlio.
Ho passato momenti in cui mi sono chiesto se sto assumendo il ruolo giusto, se sto facilitando una fuga alle prime difficoltà oppure se sto semplicemente aiutando mio figlio a fare quello che lui crede sia più giusto per sé.

E ancora adesso non lo so, non so se sto facendo bene o male.
Non lo so, maledizione.




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